Metis alle origini del concetto di intelligenza

 

 

MONICA LANFREDINI

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno XVII – 03 ottobre 2020.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: SAGGIO BREVE]

 

Premessa: il presente saggio è stato suddiviso in quattro parti pubblicate settimanalmente. Si è scelto di ripubblicare con il prosieguo anche la parte iniziale per facilitare il lettore che non l’abbia letta in precedenza.

 

Prima e Seconda Parte

 

Introduzione. Siamo abituati a pensare all’intelligenza come a una facoltà misurabile della mente umana dalla quale dipende una parte importante della vita di ciascuno. I concetti operativi delle discipline che la studiano, così come quello popolare di abilità cognitiva generale messa alla prova dalle circostanze della vita, hanno quasi del tutto coperto nella coscienza collettiva due aspetti problematici: il primo è che le abilità operazionali che esercitiamo, sviluppiamo e misuriamo singolarmente potrebbero apparirci distinte per effetto di questo trattamento culturale, ma essere in realtà tutte espressioni di uno stesso nucleo funzionale; il secondo è che sicuramente quel potere della nostra mente che chiamiamo intelligenza, qualunque sia la sua natura cerebrale, è interconnesso con tutti gli aspetti della nostra vita psichica.

Questi due problemi riportano alla nostra coscienza un fatto, ossia che il modo attuale di considerare l’abilità emblematica del nostro potere cognitivo ha indotto all’oblio culturale l’approccio creativo alla sua conoscenza, storicamente espresso dal pensiero greco arcaico e antico. L’intelligenza che, per interpretare sé stessa, si rappresenta frammentata in tante virtù, arti, proprietà, doti e risorse che costituiscono altrettanti requisiti distintivi delle divinità olimpiche maggiori e minori, oppure si esprime totalmente, personificandosi in una dea che esiste solo a questo fine, potrebbe suggerire riflessioni e ispirare nuovi percorsi di ricerca.

Ma anche se questo scritto non si rivelerà, come è probabile, utile per le neuroscienze, spero che possa valere per aver favorito il piacere di immergersi in quella dimensione temporale che ha avuto il suo maggiore teatro nello scenario eterno e naturale dell’azzurro terso e intenso del cielo e del mare, alla luce di un sole senza tempo.

 

Chi era Metis e in cosa si rappresentava. Il nome proprio Metis identifica una divinità figlia di Oceano e Teti, che fu la prima sposa di Zeus, dal quale fu ingoiata mentre era incinta di Atena; come nome comune, prima dell’epoca di Platone, quando venne a designare la misura intesa quale cifra della ragione greca, metis indicava un’accorta prudenza, una trovata d’astuzia o una risorsa di ingegno, ovvero una manifestazione di intelligenza non convenzionale o superiore all’ordinario.

Trascurata per secoli dai grecisti[1], anche per le difficoltà d’interpretazione dei testi che la riguardavano, il fascino della sua scoperta fu reso evidente a metà del secolo scorso dalla ricerca di Henri Jeanmaire su La nascita di Atena e la regalità magica di Zeus (1956)[2], e ben presto divenne chiaro che l’arco temporale di indagine sulla sua natura avrebbe dovuto coprire oltre mille anni, fino a Oppiano.

Gli studi successivi hanno definito un campo semantico vasto e caratteristico legato alla metis e, soprattutto, hanno definito il suo valore di mezzo per ottenere un risultato, risolvere un problema, venir fuori da un’aporia, volgere a proprio vantaggio una difficoltà, inventare stratagemmi o strategie in corso d’opera con perspicacia, sagacia, prontezza ed efficacia. Si parla di metis anche per spiegare artifici magici, per descrivere i segreti di un artigiano o di un artista valente, per indicare il ricorso a filtri o erbe medicinali (pharmacon) e, sistematicamente, per indicare i trucchi d’astuzia della volpe e del polpo. Ulisse, grande maestro dell’inganno, è definito polumetis, cioè dalle tante risorse di metis.

Omero fornisce nel XXIII canto dell’Iliade, nell’episodio dei Giochi, un esempio emblematico di metis. Il giovane Antiloco deve affrontare nella corsa dei carri Menelao, i cui cavalli sono di gran lunga più veloci e forti dei suoi: il pronostico lo vuole sicuro perdente, anche se Poseidone e Zeus lo hanno dotato di abilità non comuni e della fortuna di essere figlio di Nestore, il più esperto consigliere in fatto di tecniche in questo campo, capace di dargli i suggerimenti migliori. Dopo aver tessuto le lodi della metis, per incoraggiare Antiloco il padre dice che l’auriga esperto di tutti i trucchi, anche se ha dei ronzini e non dei grandi corsieri, può vincere. Ma la trovata è frutto dell’improvvisazione istantanea del giovane: giunti ad una brusca strettoia della pista, corrosa in quel punto dalle acque di un temporale, Antiloco taglia diritto la curva a tutta velocità precipitandosi, come se avesse perso il controllo, contro il carro di Menelao; questi, sorpreso dall’improvviso pericolo di impatto, istintivamente frena i cavalli e il giovane lo sorpassa, andando a vincere d’astuzia una gara che di forza avrebbe sicuramente perso.

Ecco cos’è soprattutto la metis: l’intelligenza che batte la forza. Per questo la sua rappresentazione non poteva avere espressione migliore di una divinità femminile, stante la media naturale dei corpi maschili caratterizzati da dimensioni maggiori e muscoli molto più potenti.

Prima di provare a caratterizzare con vocaboli e concetti impiegati dagli antichi greci questa particolare espressione dell’intelligenza, desidero sottolineare che il modo in cui è intesa la metis indica più un atteggiamento mentale complessivo al servizio del quale il soggetto pone le sue strumentalità cognitive, che una singola facoltà mentale; pertanto, si presta particolarmente alla personificazione. La metis non è la diligente esecuzione di un compito predefinito, ma la virtù di trasformare in compito ciò che per la maggioranza è un ostacolo insormontabile, trovare una via quando sembra di essere in un vicolo cieco; ma anche porsi un problema che gli altri non considerano e riuscire a risolverlo prima che gli altri lo comprendano. Perché la metis non è solo questione di esecuzione di strategie e artifici, ma anche capacità di lettura della realtà: è proprio dal modo in cui l’intelligenza formula un problema che dipende il suo successo nel trovare una soluzione.

Dunque, la metis non è un’astuzia, magari appresa in quanto tale e poi impiegata al momento giusto, ma uno stile psichico che implica un particolare tipo di attenzione: come il grande detective è sempre un buon osservatore, chi è dotato delle risorse della figlia di Teti tende costantemente a tenere sotto controllo i segni che può cogliere nella realtà, come indicato da un verbo greco poco noto, dokeúein, termine tecnico della pesca, della caccia e della guerra, tradotto in genere con spiare, ma che negli esempi di metis si potrebbe rendere in italiano con scrutare, monitorare e, in alcuni casi, scandagliare. Un esempio lo fornisce l’autore esiodeo dello Scudo[3], che usa questo verbo descrivendo un pescatore accovacciato immobile in agguato con la sua rete, pronto a lanciarla dispiegandola in tutta la sua estensione al primo segnale che indichi il momento propizio per la cattura dei pesci. La circostanza è semplice ma paradigmatica: anche se l’esecuzione dell’atto sarà immediata e rapida, la sua preparazione è stata meditata con cura durante la paziente attesa.

Se l’atto efficace o risolutivo può compiersi in un istante nel modo più adatto all’occasione, non è mai una reazione d’istinto, e infatti la metis si colloca agli antipodi dell’impulsività superficiale: chi è dotato delle risorse di Nestore, Ulisse o Teti, paragonate spesso alla saggezza (phronesis), coltiva le proprie doti con un esercizio costante di interpretazione ed elaborazione della realtà che lo rendono profondo e mai banale, all’estremo opposto dell’ephemeros, che per la sua iperattività spensierata, con velocità di parola e azione, può essere scambiato dal semplice per abile e capace, ma in realtà è solo un irriflessivo che, sfruttando l’energia del temperamento allegro, riesce ad avere un impatto ad alta intensità nel rapporto con gli altri, spesso rimanendo un irresponsabile inetto, alla prova dei fatti.

Omero richiama l’attenzione sulla struttura della metis: non è un’entità unica e omogenea al suo interno, al contrario si presenta come multiforme ed eterogenea. Tre vocaboli possono esprimere in sintesi questo concetto: molteplice (pantoíe), varia (poikíle) e oscillante (aíole).

La molteplicità è il connotato emblematico per Nestore e, senza dubbio, Ulisse è caratterizzato come polútropos e poluméchanos proprio in base a questo requisito della sua intelligenza. Il frequente paragone di Odisseo con il polpo non è superficiale: è metafora e analogia allo stesso tempo, perché il mollusco è intelligente – e i Greci erano attenti osservatori delle sue strategie per catturare prede e sfuggire a predatori – ma rende anche la molteplicità con l’immagine degli otto tentacoli che si muovono indipendentemente. L’eterogeneità o varietà fa riferimento soprattutto alla capacità di assumere prospettive, abiti mentali o paradigmi differenti per comprendere, elaborare ed agire. Esopo osserva in una favola che se la pantera (il leopardo)[4] ha il pelo maculato, e perciò variegato (poikílos), la volpe è variegata nello spirito[5].

Infine, l’oscillazione deve intendersi come tentativo di caratterizzazione in rapporto al tempo, anche se molti autori adoperano aíolos nel significato di cangiante, più che ondeggiante, con un valore semantico che in parte si sovrappone a quello di poikílos. Benveniste ha collegato aíolos ad aíon[6], che nel greco arcaico voleva dire tempo e midollo spinale, in quanto si riteneva che il tempo stabilito per la durata dell’esistenza di ciascuno fosse impresso nel proprio midollo spinale. Aion, inteso come tempo primordiale, è spesso rappresentato come un bambino che gioca a dadi[7]. Ma, riferito alla metis, aíolos riguarda una temporalità diversa, più di ritmo cangiante che di durata, e verosimilmente indica l’attività mentale costante, seppure inapparente, che costituisce il dinamismo necessario all’esercizio dell’intelligenza[8].

 

Dalla Metis di Orfeo alla Seppia divina. Doveva essere molto bella Teti, quella vera intendo, ossia la donna che ha ispirato il mito della fanciulla cresciuta sull’Olimpo presso Era e poi diventata una Nereide, perché Peleo aveva davvero perso la testa per lei, nonostante avesse sposato la principessa Antigone, si fosse innamorata di lui Astidamia e fosse circondato dalle donne più seducenti dell’epoca, compresa la principessa troiana Andromaca, che fu sua concubina. Peleo voleva Teti a tutti i costi, ma lei gli sfuggiva con mille astuzie; naturalmente il mito narra di metamorfosi della dea, che aveva acquisito le virtù di Proteo, così da realizzare il ciclo completo delle trasformazioni che la portò, da Nereide in grado di nuotare sott’acqua, a mutarsi addirittura in una seppia. Cosa da scoraggiare anche il più passionale degli innamorati, che di fronte al pallido mollusco avrebbe visto con buone ragioni sbollire i propri ardori e arrendersi a un’evidenza mutata non più nella forma, come vuole il termine metamorfosi, ma nella sostanza di una procace promessa di felicità ridotta a un flaccido esemplare di cefalopode, nella migliore delle ipotesi promesso alla casseruola. Ma non così Peleo, che inabissato nel mare della Magnesia, in una grotta sottomarina riesce a far sua la tanto agognata seppia divina.

Più avanti vedremo quanto emerge dai più antichi documenti su questo mito e sulle tracce delle probabili vicende reali che lo hanno ispirato, ma ora accantoniamo per un po’ il filo degli accadimenti relativi alla madre della nostra protagonista per cercare di ricostruire il mosaico dell’identità della Metis “orfica”, ossia nella cultura ispirata ad Orfeo. In questo campo, lo straordinario lavoro di raccolta e interpretazione compiuto a partire dagli anni Settanta da Detienne e Vernant ci consente oggi non solo di tracciare un profilo per molti versi inedito della dea-ninfa, ma anche di individuare un registro critico per comprendere le cause delle differenze nelle tradizioni[9].

Un caso emblematico è costituito dal Papiro di Derveni, un rotolo scoperto negli anni Sessanta ma, al di fuori di ristrette cerchie di specialisti, ancora poco noto nei contenuti. Si tratta di un papiro del IV secolo a.C. contenente un interessantissimo commentario a una teogonia orfica che risale all’epoca arcaica: una miniera di informazioni sull’origine e lo status degli dei e dei daimon, e una guida per comprendere l’ottica di religiosi e filosofi che, a partire dal VI secolo, si sono posti sotto il patrocinio di Orfeo per far circolare i loro discorsi sacri (Hieroi Logoi).

Metis nel Papiro di Derveni è addirittura la grande divinità primordiale: altro che trascurabile ninfa del mare ignorata da Omero, come ancora riporta qualcuno! Ma, prima di entrare in questo dettaglio, è necessario ricordare che l’insegnamento universitario tradizionale si è basato e si basa sulla Teogonia di Esiodo, ritenuta ortodossa rispetto alle teogonie orfiche e a tutti gli scritti da queste derivati nel corso dei secoli. È importante sottolineare che, fino alla scoperta del Papiro di Derveni, le tradizioni orfiche venivano spesso discreditate, al punto che si era fatta strada l’idea che non fossero autentiche, ma invenzioni o “costruzioni artificiali del tardo neoplatonismo”[10]. E, anche se questa ipotesi erronea ancora si legge, il papiro dimostra l’autenticità di una tradizione mitica che ha origine in racconti arcaici[11].

La riabilitazione dei miti orfici comporta il riesame filologico ed esegetico di una notevole mole di fonti accantonate e di scritti eterogenei, che riportano leggende, allegorie, trame chimeriche e prodigi differenti e spesso fra loro contrastanti.

Il problema, come si presenta oggi agli occhi degli studiosi e di tutti i curiosi che riescano a gettare lo sguardo sui testi dei documenti, delle riproduzioni, dei commentari, delle raccolte di frammenti, delle analisi esegetiche e degli studi di interpretazione, è così sintetizzabile: un groviglio inestricabile, costituito da fili di senso che spesso mortificano non solo il vincolo cronologico di causalità, ma anche l’elementare principio logico di identità e non contraddizione. Cosa fare?

Le possibilità alternative non sono molte: 1) collezionare alcuni di questi fili – quelli meno problematici – e porli uno accanto all’altro come versioni differenti del mito, secondo il principio adottato dagli autori dei dizionari della mitologia classica[12]; 2) seguire il criterio scolastico di riconoscere solo la trama del mito riportata dai grandi poeti ancora oggetto di studio – e in questo caso vorrebbe dire rinunciare del tutto, perché Omero non si occupa di Metis ma solo di metis; 3) farsi allievi dei maggiori esperti e studiare le loro pubblicazioni per trovarvi un filo di Arianna nel labirinto dei materiali documentari.

Personalmente ho scelto la terza opzione, prendendo le mosse dall’opera di Marcel Detienne e Jean-Pierre Vernant che mi ha consentito di venire a conoscenza di studi e autori dei quali non sospettavo nemmeno l’esistenza. Acquisita una certa dimestichezza con metodi, concetti e criteri di studio, non mi è stato difficile trovare spazio per l’esercizio da me preferito fin da quando frequentavo gli ambienti dell’antichistica italiana: provare a ricostruire o dedurre la realtà mentale e materiale dell’epoca[13].

Prima che l’elaborazione dei miti divenisse parte della tecnica letteraria e dunque frutto artistico della creatività di un singolo o, quantomeno, della sua abilità di scelta nel patrimonio di tradizione orale, la produzione e la gestione delle tematiche e dei valori simbolici era parte della quotidiana esperienza collettiva di raccordo fra l’attualità e il mondo dell’intangibile o del passato.

Se si ha presente che la complessa genesi dei miti si può sempre riportare alla radice antropologica della necessità di gestire una realtà attraverso la condivisione della sua rappresentazione iperbolica in un racconto, si comprende che la trama di tale narrazione contenga e riveli modi del pensiero e caratteri della psicologia dell’epoca.

Proviamo a immaginare di essere al tempo in cui il mito non era ancora stato costruito, per poter tentare di identificarne gli elementi fondanti. Da tutto quanto ho letto è ragionevole dedurre che sulla scena del mondo, e in particolare fra cielo e mare, l’intelligenza si era esibita mostrando le meraviglie del suo potere attraverso una donna, che aveva profondamente impressionato gli astanti, rendendoli prima testimoni, ossia depositari di una memoria, e poi relatori, cioè messaggeri dei fatti accaduti e degli effetti prodotti.

Questi due spunti reali all’origine del mito possono difficilmente essere contestati: la civiltà greca più di ogni altra ha attribuito all’intelligenza valore di fondamento per ogni arte, scienza e conoscenza, e poi, che vi fosse una particolare donna alle origini del mito, è confermato dalle varianti più antiche che conservano per protagonista la madre (Teti) o, al massimo, la figlia di Metis (Atena), ed è anche suggestivamente corroborato in greco dal nome comune derivato, metis, che appartiene al genere femminile.

La novità assoluta, documentata dalla tradizione orfica in completo contrasto con l’ortodossia di Esiodo alla quale è ispirata la coreografica composizione dell’Olimpo che ci accompagna dagli anni della scuola, è costituita dall’idea che l’intelligenza sia la madre di tutti gli dei. Metis è meravigliosa e appellata anche Phànes, Splendente, che appare e fa apparire, e Protogonos, colei che è nata per prima, perché è la grande divinità primordiale che, uscendo dall’uovo cosmico, porta in sé il seme di tutti gli dei, il germe di tutte le cose e porta alla luce, in quanto prima generatrice, l’universo intero nel suo corso successivo e nella varietà delle sue forme.

Come la mettiamo con Zeus signore assoluto di tutte le divinità dell’Olimpo secondo Esiodo e chiamato Padre di tutti gli dei da Omero? È evidente che il primo nucleo del mito di Metis quale origine di tutte le creature divine deve aver preceduto i miti della teogonia esiodea o, almeno, deve essersi sviluppato lontano dalla conoscenza della tradizione che ha avuto più seguito nel corso della storia. Proprio il tentativo di ricostruire un filo cronologico per queste due tradizioni in contrasto ci consente di ordinare come tessere di un mosaico o pezzi di un puzzle alcuni elementi di quella matassa aggrovigliata di frammenti che, altrimenti, rischia di apparire un autentico pasticcio, senza capo né coda.

I depositari della tradizione orfica della Metis madre primordiale, quando vengono a conoscenza della Teogonia di Esiodo, pur professando un’adesione “religiosa” alla composizione dell’Olimpo e alle sue gerarchie, ribadiscono una “teologia della genesi” profondamente diversa da quella esiodea. In Esiodo, Metis è rappresentata in un ruolo subalterno alla divinità maschile, secondo un modello sociale tipico della giovane donna accolita o compagna del Re Padre, che esercita tutte le prerogative di detentore di un potere assoluto. Nella trama esiodea, Zeus è emerso vincitore da una lunga lotta contro le potenze primordiali del disordine e ha stabilito l’ordine in un cosmo organizzato, differenziato e gerarchizzato, con sé stesso al vertice della gerarchia.

L’impatto della tradizione orfica su quella esiodea non deve essere stato lieve: il valore simbolico di intelligenza attribuito alla figlia di Teti deve aver reso evidente un deficit del re degli dei. Non solo Zeus non è nato dall’intelligenza ma, se ne ha bisogno come compagna, evidentemente non ne possiede! Si rimedia subito: Zeus ingoia Metis e così diventa intelligente.

Prima della scoperta del Papiro di Derveni, O. Kern vedeva all’interno della tradizione Orfica nel personaggio di Metis e nel suo ingoiamento da parte di Zeus una chiara derivazione dalla Teogonia di Esiodo[14].

Ma anche gli Orfici, a loro volta, reagiscono alla tradizione esiodea. Così Metis-Phànes, da donna meravigliosa e madre primordiale, in una transizione astratta verso il concetto di intelligenza, perde la sua natura femminile umana per diventare un dio androgino: diphués. Dunque, all’ingoiamento da parte di Zeus, che sembra quasi ribadire una supremazia maschilista legata al ruolo dei re-guerrieri, gli Orfici reagiscono con una modulazione concettuale che sembra voler dire: non è una questione di sesso ma di abilità mentale astratta; se voi ritenete che la donna non possa personificare l’intelligenza, allora vi proponiamo una personificazione bisessuale, ossia non appartenente a uno solo dei due sessi. Ecco cosa ne deducono Detienne e Vernant: “Metis non è più, come femmina, subordinata a Zeus; in quanto bisessuata, questa divinità si pone al di sopra o, in ogni caso, al di là”[15].

Non mancano i tentativi di sintesi: l’inghiottimento di Fanes-Metis da parte di Zeus avviene alla quinta generazione divina, che segue la successione di passaggi dello scettro da Fanes-Metis a Nux (la Notte), poi a Urano e, infine, a Crono, prima di giungere a Zeus, che dà luogo a una seconda creazione, omologa della prima di Fanes-Metis. In tal modo, il re degli dei può essere “inizio, metà e fine di tutte le cose”[16].

Ma, nel prosieguo, gli autori Orfici seguono una tradizione che considera Zeus come un membro di una dinastia regnante, e ne registra l’abdicazione del trono a favore del figlio Dioniso, rappresentante della settima e ultima generazione degli dei sovrani. Platone si esprime così al riguardo: l’avvento di questa generazione di dei nei poemi attribuiti ad Orfeo segna la fine del processo teogonico, ed ora “bisogna por fine all’ordine del canto”[17]. In altri termini: basta invenzioni sull’origine degli dei, perché nel IV secolo a.C. i tempi sono maturi per giungere ad una sintesi culturale stabile e condivisa.

In realtà, la questione antropologica sempre sottaciuta è che si doveva fare i conti con le culture locali di sostrato, con tradizioni protostoriche o addirittura preistoriche, culti che alcuni ritrovamenti archeologici facevano risalire addirittura al Neolitico. Tradizioni non scritte, con i loro rudimentali monumenti, tramandate per millenni oralmente da una generazione all’altra, difficili da eradicare ma a volte anche da “normalizzare” facendole rientrare nelle mitologie scritte da Ateniesi, Spartani e autori di altre importanti polis. Naturalmente, la questione si pone quando l’assimilazione si rivela problematica, perché l’identificazione efficace che copre e annulla il passato costituisce un processo culturale in sé banale, universale, diacronico e ricorrente: divinità egizie che diventano greche, gli dei romani che si sovrappongono a calco sull’Olimpo greco con l’aggiunta dei nuovi re divinizzati, i Numi tutelari classici che diventano santi protettori in epoca cristiana, e così via, per citare solo i casi più noti.

Nella creazione degli dei, prima della fase in cui si idolatravano re, capi militari, donne e uomini dalle virtù eccezionali, vi era stata un’epoca in cui la creazione di soggetti divini era prevalentemente opera del “pensiero magico primitivo”[18], che tendeva ad attribuire proprietà straordinarie ad animali, piante ed elementi di natura. In questa epoca, perdendosi nella notte dei tempi delle culture protostoriche, si può collocare un animale molto speciale, dotato di metis, che deve aver preceduto la donna straordinaria nella fantasia dei naviganti primordiali, come vedremo più avanti.

Ma ora torniamo alla bellissima Teti, al fascino della sua intelligenza e, soprattutto, agli argomenti che chiariscono il suo rapporto equivoco con l’identità della seppia.

Chi ci aiuta a trovare un filo che ci porti a giustificare la scelta del mollusco?

La scoperta da parte di Lobel nel 1957 di un papiro di argomento cosmogonico scritto da Alcmane a Sparta nel VII secolo a.C., ben trecento anni prima dell’epoca di Platone, utilizzando modelli mitici antichissimi e arcaici senza nulla di orfico, ha segnato un progresso di conoscenza il cui valore è divenuto chiaro quando il prezioso documento, dopo innumerevoli analisi filologiche e saggi interpretativi, è giunto all’attenzione di Detienne e Vernant[19].

Alcmane pone all’origine del mondo la Nereide Teti associata, da una parte a Poros e Tekmor, dall’altra a Skotos. Un ruolo apparentemente paradossale per la madre di Achille nella genesi del Cosmo, ma che si può giustificare comprendendo che l’identità della dea, come accade per Metis, nel corso di secoli e millenni, si è andata sovrapponendo a quella di entità divinizzate in epoche remote. Sgombriamo subito il campo da un dubbio adombrato per la prima volta da Jouan nel 1966, ossia che le metamorfosi che portano Teti a diventare seppia per sfuggire a Peleo siano un’invenzione poetica di Euripide: il grande tragico di Salamina si era solo limitato a riportare una storia popolare considerata molto antica già nel V secolo a.C., come attestano numerose fonti, nessuna delle quali cita Euripide[20].

La tradizione del mutamento in cefalopodo sembra risalire ai Canti Ciprii ed è stato ricostruito che, mentre per parte sua Teti aveva assunto le virtù di Proteo con la sua dinamica del ciclo di metamorfosi, d’altra parte, Peleo era stato supportato da Chirone nella fiducia perseverante di seguire i cambiamenti senza perdere la speranza di poter ottenere la fanciulla sebbene mutata[21]. Chirone consiglia Peleo di ricorrere a sua volta a un artificio di metis: identificare la seppia-Teti e fingere di non riconoscerla, per poterla di sorpresa afferrare e serrare tra le braccia, possedendola proprio mentre ha quella forma, che la rende più vulnerabile. Peleo riesce nell’impresa, ma in realtà non è una sua vittoria, perché il promontorio di Iolco, dove Teti si trasforma in seppia dandogli il nome di Capo Sepia o Capo della Seppia, apparteneva a lei e alle sue Nereidi, e dunque la dea-ninfa poteva aver realizzato i suoi artifici solo per mettere alla prova Peleo e verificare se lui avesse perseverato nel desiderarla anche senza un corpo da stupenda fanciulla.

Erodoto attesta che la vicenda era considerata dalle popolazioni antiche del Mediterraneo al pari di un fatto storico: “Dopo la tempesta che ha distrutto la loro flotta al Capo Sepia, i Persiani offrono sacrifici a Teti e alle Nereidi: «Essi sacrificavano a Teti perché avevano appreso dagli Ioni che in quel paese lei era stata rapita da Peleo, e che tutto il promontorio Sepia apparteneva a lei e alle altre Nereidi»”[22].

Ateneo ci dice che al Capo Sepia il mare è ricco di seppie e, secondo verifiche recenti, i molluschi sono ancora abbondanti in quel luogo, a quasi tre millenni di distanza. Se in tempi remoti era nato il culto per un’arcaica divinità del mare proprio in quell’area, si può supporre che l’abbondanza di seppie, ritenute segno della sua presenza, sia stata uno spunto per la creazione della trama. Ma la cosa potrebbe non essere così semplice e banale.

Infatti, anche se la seppia è considerata dai Greci, al pari del polpo, un animale dotato di metis, ciò che non convince è la trasformazione della donna nel piccolo mollusco e Peleo che la “serra tra le braccia” per possederla. Il sospetto è che la parola greca per “seppia” possa essere stata impiegata in senso figurato, traslato, metaforico o simbolico.

Consideriamo, allora, questa possibilità. La metonimia del colore bianco della seppia era associata al femminile e alla donna, sia per indicarne l’aspetto negativo della debolezza sia per esaltarne l’aspetto positivo della bellezza. Chi non ricorda il verso dell’Odissea riferito a Penelope, in cui si dice che la dea l’aveva fatta più bella, più bianca dell’avorio tagliato?

 

Inizio seconda parte.

 

Scoprire il senso metaforico della metamorfosi in seppia. Il bianco della seppia può essere riferito tanto alla tinta della carnagione quanto al temperamento della donna[23]. Secondo Eustazio, il nero è il maschio, il forte; il bianco la femmina, il debole, o l’effeminato: leukoi hoi deiloi, ossia i bianchi sono deboli. L’origine di questa associazione costante nel mondo classico, e presente anche negli Egizi che raffiguravano in una tinta scura del rosso il corpo maschile e in tinte chiare del bianco quello femminile, si comprende se si considera la vita all’aperto con costante esposizione al sole del corpo degli uomini per attività sociali, militari o ginniche – gymnos, atleta, vuol dire nudo – che esaltava la maggiore tendenza, anche per la costituzione endocrinologica maschile, alla pigmentazione della cute. Per contro, le donne greche trascorrevano la maggior parte della giornata in casa e tendevano a proteggere il corpo dal sole intenso. In Plutarco troviamo una connotazione totalmente positiva del biancore non inteso come pallore, ma intensità luminosa del chiaro, e della mollezza ( malakia), intesa come morbida consistenza e non come flaccidità, della seppia e dei molluschi in genere, nell’accostamento alla desiderabile delicatezza del corpo femminile (Plutarco, Mor. 916 a-c).

Ma un supporto decisivo all’ipotesi che “seppia” non si debba intendere alla lettera nel mito di Teti ci viene da Aristofane che, nella commedia Ecclesiazuse, ovvero Le Donne al Parlamento (392 a.C.), rivela il valore di luogo comune dell’associazione della donna alla seppia e al suo biancore, nella resa teatrale di un fatto di cronaca rappresentato mediante il gustoso episodio di un travestimento di donne ateniesi, tanto improbabile quanto perfettamente riuscito nel suo scopo. In breve, un gruppo di donne ritiene che gli uomini stiano mandando in rovina la città di Atene e vuol fare in modo che tutte le attività politiche ed economiche passino sotto il controllo di esponenti del sesso femminile, capaci di amministrare in modo più saggio, oculato e democratico. Ma il Parlamento è composto solo da uomini che non voterebbero mai a favore di un provvedimento che cederebbe tutto il potere alle donne, allora le nostre eroine decidono di entrare in incognito nell’assemblea della polis, presentare il provvedimento e convincere quanti più uomini possibile a votarlo.

A questo scopo, le Ateniesi si camuffano da uomini, facendone una tanto involontaria quanto divertente parodia, imitando i caratteri distintivi dello stile, della postura e della voce degli esemplari a loro giudizio più emblematici del genere maschile; si appiccicano con cura delle barbe finte sulla candida pelle del viso e, nonostante abbiano cercato di ovviare la differenza del tono cutaneo, quando sono tutte pronte per fare le prove del discorso, una di loro esclama: “Si può vedere nulla di più buffo? … Pare di vedere tante seppie arrostite con la barba!”[24].

Taillardat così commentava: “Le donne che rimangono sempre a casa hanno la pelle bianca come le seppie e, sebbene esse si siano abbronzate al sole, la loro abbronzatura è superficiale, e rassomigliano più a delle seppie dorate in padella che a degli uomini veramente scuri”[25].

Dunque, l’accostamento fra donna e seppia era comune e se si cerca in Aristotele, Plutarco, Ateneo e Oppiano si trovano esempi a sufficienza per non dubitare che il mollusco fosse anche una figura dell’astuzia al femminile, così come il polpo lo era per quella maschile. La seppia è la bianca che nasconde il nero, l’inchiostro che rende oscure e impenetrabili le acque, creando un’aporia per gli altri ma costituendo per lei una soluzione, un póros, nel duplice significato di stratagemma e via d’uscita. Il bianco è associato dai Greci alla luce, il nero alle tenebre; dunque, si spiega il posto occupato nella teogonia di Alcmane[26] da Teti che, in quanto bianca come donna/seppia è accostata alla luminosità di Poros e Tekmor e, in quanto dotata di metis/inchiostro, è avvicinata al tenebroso Skotos.

Tuttavia, questa pur plausibile ragione dell’identificazione della Nereide con il cefalopodo, non convince del tutto in rapporto a un aspetto cruciale della trama del mito: Teti va incontro al ciclo di metamorfosi e, quando diventa seppia, viene posseduta da Peleo. In altri termini, il racconto non indica una costante e costitutiva appartenenza di Teti, in quanto donna, alla categoria simbolica delle “creature bianche”, ma una potenzialità espressa come cambiamento in una determinata circostanza. Un mutamento che avrebbe dovuto allontanare Peleo, e che sicuramente lo avrebbe indotto a desistere se questi non fosse stato consigliato da Chirone. E allora?

Analizzando i valori semantici della parola greca σηπία (sepia) si scopre che esiste un’antichissima associazione fra i molluschi in qualità di cibo di mare e un effetto afrodisiaco. Ateneo, citando Diocle, afferma che i molluschi invogliano e motivano al piacere, inducendo nelle persone desideri sessuali; ma in questo caso si tratta dell’effetto prodotto come alimento, non dell’identità di seppia. Se l’uso del termine è figurato o metaforico, quale significato poteva aver assunto in rapporto alle funzioni svolte dalle donne in seno alla società delle polis?

Indagando sui ruoli sociali della donna nel mondo greco, ci si imbatte nella concezione pubblica della prostituzione che, al contrario di quanto accadeva nel mondo ebraico in cui era severamente punita, aveva un riconoscimento legale quale attività lavorativa soggetta a una particolare tassazione.

Ad Atene, come nella maggior parte delle polis, il meretricio ed ogni sorta di favore sessuale concesso a pagamento erano disprezzati e condannati dalle donne di casta elevata, che praticavano appunto la castità, similmente alle sacerdotesse che potevano consacrarsi a vita, ma presso i ceti popolari, fino alle classi medie, esistevano varie categorie di meretrici. Al livello più basso erano le pornai, molte delle quali erano straniere di origine orientale che, come altre ragazze povere della città, vivevano nei postriboli contrassegnati all’esterno dalla vistosa immagine fallica del dio Priapo, che fungeva da insegna pubblicitaria. Tali squallide dimore erano localizzate in Atene nella zona del Pireo e vi si accedeva mediante un obolo che dava diritto ad esaminare le ragazze seminude e intavolare con loro la contrattazione sul pagamento. Ben diversa era l’immagine sociale delle auletridi, o suonatrici di flauto, che intrattenevano i clienti a pagamento spesso in spettacoli per soli uomini, con musica, danze artistiche o lascive, concedendosi per cifre più elevate delle pornai e solo a chi era di loro gradimento. Le auletridi più anziane creavano scuole per le più giovani in cui insegnavano, oltre alla cosmetica, alla musica e alla danza, l’arte di far innamorare gli uomini con tecniche di seduzione e schermaglie amorose.

Accantonando altre categorie, consideriamo quella più elevata e culturalmente rilevante perché includeva – come ha tramandato la storia – Aspasia, Taide, Teoride, Archippe, Antifane, Archenassa, Diotima, Clessidra, Targhelia e Leonzia, per citare solo le più note, ossia le hetairai o etere, che letteralmente vuol dire “compagne”[27].

La maggior parte delle etere proveniva da famiglie di classi elevate che avevano dato loro educazione raffinata e istruzione in filosofia, letteratura, musica e vari altri campi del sapere, cosa che le facilitava nel diventare compagne e talvolta collaboratrici di filosofi e poeti. Esiste un’antologia ateniese di epigrammi delle etere[28].

In molti casi, diventavano etere le ragazze che non sopportavano i rigidi costumi e i doveri delle padrone di casa greche che, pur impartendo ordini ad ancelle e schiave, erano personalmente impegnate in lavori quotidiani che andavano dalla tessitura alla realizzazione di oggetti artigianali, esercitando le abilità con una cura propria dello status di areté, che includeva nelle virtù anche l’eccellere in questi compiti. Le etere si imbiondivano i capelli per incarnare un ideale di bellezza celebrato a quel tempo, perché la loro fortuna dipendeva dalle doti estetiche, considerate un valore assoluto dai Greci, e non dall’intelligenza, come alcune di esse cercavano di far intendere. D’altra parte, una ragazza con risorse di cognizione e saggezza non aveva bisogno di prostituirsi per trovare un posto nella vita.

Anche se famosi filosofi ebbero etere per compagne, un cittadino ateniese, sposato e preoccupato di conservare una buona reputazione, le evitava. Inoltre, queste donne, che spesso si concedevano per settimane, mesi o anni allo stesso uomo, non godevano della maggior parte dei diritti civili ed erano bandite da tutti i templi delle città, eccetto quello della loro protettrice Afrodite Pandemia[29].

Un particolare da non trascurare è che la legge obbligava le etere, proprio in quanto potenzialmente indistinguibili dalle caste vergini e dalle irreprensibili signore della città, ad indossare abiti fiorati o almeno contrassegnati da qualche macchia cromatica che ricordasse un fiore. Frine, divenuta celebre per essersi offerta di pagare la ricostruzione delle mura di Tebe purché vi incidessero il suo nome, era solita presentarsi in pubblico coperta da veli contrassegnati da qualche macchia floreale, così da attrarre lo sguardo e creare aspettative per il gioco di disvelamento, che compiva alle Eleusine e Posidonie, feste durante le quali lasciava cadere i veli davanti a folle ammirate e, sciolte le lunghe chiome, si immergeva nuda come Venere nelle acque[30].

Molte etere assumevano il nome di Sepia, e fra queste vi erano sicuramente Archippe e Antifane[31], e si desume che il termine fosse diventato nel linguaggio comune sinonimo di etera. Sembra che il vocabolo designante il mollusco fosse impiegato per riferirsi all’essenza fisica ed erotica della femminilità, in contrapposizione con quella psichica, caratterizzata da sensibilità, saggezza, acume e virtù domestiche. Linton Humphrey è stato fra i primi a rilevare che sepia nel linguaggio gergale antico indicava i genitali esterni della donna, e ancora oggi la parola equivalente del greco moderno, soupiá, indica la vulva[32].

Dunque, abbiamo elementi sufficienti per risalire agli eventi reali all’origine del mito e interpretare le metamorfosi di Teti come travestimenti[33]: mutata in seppia, ossia in etera bionda con una tunica fiorata identica a quella delle colleghe di ruolo, e dunque mimetizzata come una seppia sul fondo del mare, poteva sfuggire a Peleo e, anche se riconosciuta, poteva puntare sul fatto che questi, credendo che fosse divenuta realmente una prostituta, non si sarebbe mai abbassato al rango di un suo cliente. E qui entra in gioco Chirone il quale, garantendo che Teti non era diventata una vera etera ma si era solo travestita, supporta Peleo nel fingersi un ignaro aspirante alla compagnia della Nereide e nel giungere, infine, a possedere la seppia divina[34].

Da quell’amplesso si vuole sia nato Achille, che certo non difettava in metis e, per un popolo che credeva nell’ereditarietà dell’intelligenza salvo eccezionali interventi divini, non si poteva immaginare un concepimento migliore[35]. Ma, rimanendo a Teti e al suo essere la madre di Metis, dalla quale invece discende se si accetta la tesi di una Metis quale madre primordiale, non è difficile rendersi conto che entrambe le dee personificano lo stesso concetto.

L’identificazione di Metis con Teti è più di una semplice ipotesi, e spiegherebbe perché Omero, pur trattando della metis diffusamente e in ogni suo aspetto, non cita mai Metis, ma solo Teti, l’altra dea-Nereide che noi consideriamo sua madre solo perché seguiamo la teogonia più consolidata nella tradizione storico-letteraria.

 

 

Fine della seconda parte – continua.

 

 

Monica Lanfredini

BM&L-03 ottobre 2020

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[1] Unica eccezione: C. Diano, Forma ed evento. Principi per una interpretazione del mondo greco. Neri Pozza, Vicenza 1967. Diano, attraverso una lettura fenomenologica del pensiero dell’antica Grecia, descrive alcuni aspetti della metis nell’opposizione fra Ulisse e Achille (si veda pp. 56 e seguenti).

[2] Jeanmaire H., in Revue Archéologique, pp. 12-39, 1956.

[3] Cfr. Esiodo [attr.] Scudo, 214 e seguenti.

[4] Il leopardo o Panthera pardus e altri felidi simili del genere Panthera hanno un manto fulvo costellato da macchie in forma di rosette. In Italia, nel linguaggio popolare, erroneamente si chiama pantera solo la pantera nera; il colore nero è dovuto alla mutazione di un gene recessivo nel leopardo e dominante nel giaguaro.

[5] Esopo, Fab., 37 e 119. Naturalmente l’attribuzione di metis agli animali, secondo processi tipici dell’intelletto umano, è il prodotto di un pensiero “umanomorfo” originato in epoca arcaica. Le conoscenze neuroscientifiche oggi ci consentono di comprendere le peculiarità neurofunzionali e i limiti dell’intelligenza animale.

[6] Aion dipenderebbe dalla radice sanscrita -ayu che dà origine alle parole che designano la forza vitale dalla quale deriva la vita umana, così come a termini riferiti alle temporalità della vita (Cfr. Émile Benveniste, Expression indo-européenne de l’éternité. Bull Soc Linguistique 38, 1937). Sono state proposte numerose altre etimologie, nessuna delle quali ha trovato consenso unanime.

[7] Si veda in Giorgio Agamben, Infanzia e Storia. Einaudi, Torino 1979. Gli affascinanti studi su aion sono stati analizzati al nostro Seminario Permanente sull’Arte del Vivere.

[8] Questa sintesi interpretativa, basata sugli studi di H. J. Mette, è coerente con la visione di Marcel Detienne e Jean-Pierre Vernant.

[9] Il problema maggiore è consistito nel fatto che i dati di conoscenza sono emersi nel tempo in tanti differenti lavori d’archivio e archeologici concepiti in progetti di studio con fini diversi, spesso considerati super-specialistici e conseguentemente ignorati dagli studiosi che si occupavano di argomenti più generali. Un’idea di questa frammentazione si può avere consultando le bibliografie monumentali fornite da Marcel Detienne e Jean-Pierre Vernant, che hanno avuto il merito di estrarre tutto quanto riguardasse Metis, facendolo entrare in una stessa memoria.

[10] Marcel Detienne e Jean-Pierre Vernant, Le astuzie dell’intelligenza nell’antica Grecia, p. 97, BU Laterza, Roma-Bari 1999.

[11] Marcel Detienne e Jean-Pierre Vernant, op cit., idem.

[12] Uno dei più consultati al mondo, perché estremamente compatto, è quello di Michael Grant e John Hazel (Dizionario della Mitologia Classica, attualmente pubblicato in Italia da CDE Milano su una licenza SugarCo del 1989, quale traduzione di Who’s Who in Classical Mythology, con copyright nominale degli stessi autori risalente al 1979), autori che hanno scelto di riportare in estrema sintesi i temi mitici nelle versioni più note e semplificate, nello stile delle mini-trame delle guide televisive.

[13] Ho affinato i metodi di questo esercizio attraverso anni di partecipazione al seminario permanente sull’Arte del Vivere.

[14] O. Kern, Metis bei Orpheus, «Hermes», pp. 207 sg., 1939.

[15] Marcel Detienne e Jean-Pierre Vernant, op cit., p. 98.

[16] O. Kern, Orphicorum Fragmenta, frg. 168, p. 201, Berlino 1963.

[17] Platone, Filebo, 66c.

[18] Di fronte all’incapacità, all’impossibilità o alla rinuncia ad impiegare processi di logica elementare per spiegare esperienze percepite come realtà fenomenica, si faceva ricorso a forme di pensiero primitivo o magico che, lungi dall’essere un esercizio di fantasia a briglia sciolta, presenta delle caratteristiche costanti. Una delle caratteristiche del pensiero paleologico è l’identità dei predicati in rapporto ai soggetti, che consente di accostare questo pensiero a quello dei primitivi, che ancora esistono in alcune regioni della terra, e a quello delirante degli psicotici, come è stato illustrato dal nostro presidente in numerose occasioni. Nel pensiero paleologico se due persone fanno la stessa cosa o hanno una stessa virtù (identità dei predicati), anche se sono diverse e lontane fra loro nello spazio e nel tempo, possono essere fra loro identificate (identità dei soggetti). Non si può escludere che alle origini del pensiero mitico possa aver operato anche un meccanismo di questo genere.

[19] E. Lobel, Oxyrhyncus Papyri, XXIV, 1957, n° 2390, cit. in Marcel Detienne e Jean-Pierre Vernant, op cit., p. 103. La citazione dei titoli della bibliografia essenziale su questo papiro eccederebbe le dimensioni di questo intero scritto.

[20] Marcel Detienne e Jean-Pierre Vernant, op cit., p. 124.

[21] Scolio a Licófrone, Aless., II 175, pp. 84 e segg.; cit. in Marcel Detienne e Jean-Pierre Vernant, op cit., p. 124.

[22] Er., VII 191-2, cit. in Marcel Detienne e Jean-Pierre Vernant, op cit., p. 124.

[23] Cfr. Marcel Detienne e Jean-Pierre Vernant, op. cit., p. 126.

[24] Cfr. Aristofane, Le Donne al Parlamento (Ecclesiazuse). BUR, Rizzoli, Milano 1984. In un’altra traduzione: “Si direbbe che si è applicata una barba a delle seppie rosolate” (Ecclesiazuse, 126, cit. in Detienne e Vernant, p. 127).

[25] J. Taillardat, Les Images d’Aristophane, p. 61, 1965.

[26] Mi riferisco al papiro cosmogonico di Alcmane scoperto da Lobel, che ho citato in precedenza.

[27] Cfr. Will Durant, Storia della Civiltà – La Grecia, vol. II, libro terzo: L’Età dell’Oro (480-309 a.C.), pp. 69-70, Edito Service S. A. Ginevra (1939-1966) con Arnoldo Mondadori Editore (per l’edizione italiana: 1956-1966), Ginevra 1966.

[28] Mahaffy, Greek Life and Thought, p. 72, London 1887.

[29] Cfr. Will Durant, op. cit., p. 70.

[30] Cfr. Will Durant, op. cit., idem.

[31] Cfr. Archippe, frammento 27, I, p. 802 Edmonds; Antifane, frammento 26, II, p. 172, Edmonds; cfr. anche F. Bechtel, Die attische frauennämen, 1892, Indice (maggiori dettagli nei saggi di Detienne e Vernant su collocazione delle opere citate e biblioteche per il reperimento).

[32] Cfr. Marcel Detienne & Jean-Pierre Vernant, Cunning Intelligence in Greek Culture and Society, The University of Chicago Press, Chicago and London 1991.

[33] In un’epoca in cui non esistevano documenti di identità, fotografie e codici fiscali, e l’identificazione si basava sul riconoscimento visivo, il ricorso al camuffamento e al cambiamento di identità era piuttosto frequente.

[34] A supporto di questa interpretazione vi è anche la dicotomia culturale ateniese che contrapponeva le donne intelligenti e sagge a quelle sciocche e lascive: entrambe potevano essere belle, ma la bellezza virtuosa (areté) rendeva le prime dee immortali, mentre la bellezza adoperata strumentalmente rendeva le seconde, nella migliore delle ipotesi, aspiranti al ruolo di ninfe.

[35] Le doti di astuzia di Achille sono state associate in un’ipotesi all’espressione diffusa dalla Magna Grecia a tutto il territorio italico di “figlio di… buonadonna” (figlio di etera/sepia) per indicare un furbo di tre cotte; ma l’ipotesi non ha trovato supporto in prove documentali.